Se hai una partita iva e sei un freelance della comunicazione, sai che ad un certo punto, inevitabile come certe cose di ordine astronomico, arriva il Collo di Bottiglia. Lo sai razionalmente, e di sicuro ti ci sei già incastrato in passato: eppure l’informazione l’hai sepolta da un pezzo in profondità. Il collo di Bottiglia non esiste.
Con la stessa precisione delle già nominate cose spaziali, però, succede che le condizioni possano allinearsi in combinazioni del tipo una-su-un-milione-settecentomila, e attorno a te all’improvviso si raffreddi e solidifichi l’anello di vetro fuso che sarà appunto il Collo di Bottiglia. È un attimo. Il giorno prima stai placidamente commentando che ti sembra di essere scarico con il lavoro – lo dici mentre chiacchieri con la tua socia, bevendo un amarotico tè verde con il riso tostato dentro che hai comprato durante l’irrisolvibile ricerca di un sostituto del caffè – e adesso sei incastrato nel Collo di Bottiglia come uno di quei gatti ciccioni nella gattaiola di un fail video di animali domestici.
In ogni caso, il Collo di Bottiglia ne è l’immagine elegante e pulita, la poetica cristallina. Ma la vera traduzione della situazione nella quale ti trovi in termini di immagine, vita reale e conseguenze sul fisico e sulla work life balance è quella della
MONTAGNA DI ROBA DA FARE
A me è successo l’ultima volta lo scorso ottobre. Ti racconto a quali strumenti sono ricorso per uscirne.
Parte uno: il setting dell’orrore
Ottobre. Un autunno in qualche modo in ritardo. Fuori dalla finestra, un solo faggio inizia a tingersi in punta di rosso-arancio: una spia sul quadrante del foliage, un monito al cambiamento, non lo so. Il resto, comunque, è ancora verde. Da sopra, il versante orientale delle Pale mi guarda, invitante.
Il fatto è che i progetti articolati – quindi non completamente dipendenti da me – alcuni ghostwriting simultanei e la serie di lavori di entità minore ma ricorrenti su base mensile si sono a mia insaputa accumulati in un cumulo impossibile da smaltire, e sisìfeo nel funzionamento: ad attività fatta corrisponde la scoperta di altri task – mini task, micro task, più piccoli ancora task. Come gli insetti brulicanti sotto la pietra che sposti, come le teste dell’idra. Sisifo scala la to do list, ma si ritrova sempre alla sua base.
Le teste dell’Idra delle Attività possono spuntare da colli diversi:
- Le revisioni dei clienti ai lavori appena consegnati.
- Gli strascichi, cioè quello che c’è da fare dopo la scrittura.
- La FOMO dei clienti.
- La mia fallace memoria di essere umano con poco sonno e troppe idee.
- Una delle otto o dieci piattaforme per la gestione delle attività in uso dalle agenzie con le quali collaboro – otto o dieci software diversi tra loro o, se uguali, configurati in modi machiavellicamente diversi.
- Ogni maledetta chat.
Ad attività fatta, e relativa spunta messa nella to do list, può anche corrispondere una telefonata o una mail latrici della richiesta di un nuovo preventivo o, peggio ancora, di un vorrei conoscerti per capire se possiamo collaborare. Il fatto è che nei due mesi appena trascorsi l’Angelo della Filigrana non mi ha graziato della sua visita, e mi trovo così nel ricorrente e freelancesco dilemma morale del Non Poter Dire di No Virgola Nemmeno ai Lavori di Merda.
Non prenderlo non prenderlo non prenderlo.
E se poi non arrivassero più lavori?
Bingo.
Così, il Collo di Bottiglia è materializzato nel Cumulo di Roba da Fare che non-figurativamente blocca la strada verso altre, più alte cose: le Pale, per esempio, ma anche i progetti personali, la vita di coppia, un nutriente cazzeggio.
Bisogna intervenire. Saturo delle nozioni dei manuali di time management, delle frasi motivazionali sulla gestione del business e del mindset e della motivazione e del successo, e della guida impostami – mio malgrado, così come si nutrono le oche per il foie gras – dalla mitologia dell’imprenditore (siano maledetti), eccomi a tentare di smantellare il Cumulo di Bottiglia, ritorcendogli contro proprio le armi che la vulgata propone.
Parte due: organizzare e dare le priorità alle attività
Elenco in Asana le tipologie di lavoro: ghostwriting, siti e progetti articolati, content. Poi i clienti sotto ciascuna categoria. Sotto ad ogni cliente inserisco attività principali e scadenze. Ogni volta che assegno un’attività a me stesso – cioè, tutte – una goccia della tortura cinese mi scava la sommità del cranio. Asana mi manda una mail da qualche parte tra le quattro e le cinque di mattina: queste sono le cose in scadenza oggi. Le ignoro, e cambio app dopo cinque giorni. Provo a fare lo stesso con Trello, ma odio le sue board.
Peggio che peggio. Provo a fare delle checklist su Notion. Una mappa mentale su un’app gratuita della quale non ricordo mai il nome. Un foglio di carta, nel quale faccio elenchi e griglie. Nada, niente, niet.
Risolvo di non provare Airtable né Monday. Con il digitale non c’è quell’iniezione di dopamina ogni volta che completi un task: da questo punto di vista, un segno di penna o di pastello colorato su un foglio di carta è insostituibile.
Intanto scrivo. Edito. Bozzo (nel senso di produco bozze). Redigo contenuti, accolgo revisioni. Tento di schivare le call, i meeting, i brainstorming (siate maledetti), i sentiamoci per un aggiornamento, le telefonate conoscitive. Riduco all’osso le mail di aggiornamento. Scrivo dalle sei alle ottomila parole al giorno.
Serve una strategia più densa, qualcosa di ragionato. Serve una guida. Un vate. Un nume tutelare, un animale guida. Mi rivolgo all’altarino dal quale vegliano una statuina quasi fluorescente del dio Ganesh comprata a Pushkar e con una zampa rotta (Ganesh è il dio che presiede ai business appena aperti) e un ritratto di Tim Ferriss strappato da La settimana di 4 ore. Mi arriva una mail: è una richiesta di preventivo per contenuti su due pagine social. Sii dannato anche tu, Tim. Come previsto, si innesca la morale deteriore del Non Poter Dire di No, quel senso dei nonni del dopoguerra: mai più la fame, terremo la credenza sempre piena, le scorte in cantina, sei bottiglie di olio extravergine oltre alle due in uso. Mando il preventivo, ci sono pure un progetto ben spiegato e delle considerazioni: quattro pagine in tutto.
Intanto faccio le mie attività, i task derivati, scrivo.
Mi viene richiesta una sistemazione del preventivo. Sistemo, rispedisco. Poi i social diventano uno, ma le pagine da seguire, due. Aggiorno e rispedisco. Poi tornano ad essere due social, due pagine ciascuno. Rimando. Poi una sistemazione del preventivo. Poi una sistemazione del preventivo. Poi una sistemazione del preventivo. Non ho sbagliato a scrivere. Viene fuori che l’azienda ha una qualche cosa della qualità, per cui c’è un questionario da compilare e una richiesta formale da controfirmare e poi – finalmente – l’invio del preventivo finale.
Tim, cazzo.
Intanto lavoro, scrivo, eccetera. I giorni passano, il chilometraggio delle parole scritte non è più quantificabile. Leggo un libro che parla di risparmio e gestione spicciola degli schei. Secondo l’autrice, ci sono due modi per smaltire i debiti: il metodo palla di neve – saldare prima i debiti più piccoli, man mano andando in crescendo – e il metodo valanga – aggredire prima i debiti più corposi. Provo ad applicare il primo al Collo di Bottiglia, in un giorno abbatto decine di mini task, ma a fine giornata realizzo che avrei fatto meglio a fare anche un po’ delle cose grosse. Poco male, mi dico, domani provo con il metodo valanga. Ma l’indomani ho decine di mini task (ancora?), questa volta però con deadline stringenti.
Una notte, mi appare in sogno un articolo che parla della gestione delle priorità secondo Warren Buffett. Nella foto che correda l’articolo c’è l’ottimo Warren nel suo studio, scrivania lucida, poltroncina in pelle nera, cravatta indefinibile – a metà tra vinaccia e salmone – che spiega – no: che mi caldeggia di elencare i miei venticinque obiettivi, che io intendo come le mie venticinque cose da fare. Gli dico ok, elenco. Poi mi dice di scegliere i cinque obiettivi più pressanti. Oki doki, Warren, fatto. Pupille che si stringono in focus – quando Warren stringe le pupille, il cash presente nel raggio di dodici metri si moltiplica, cristologicamente – uno sbuffo di sigaro tra noi, gli occhi che bruciano impercettibilmente: adesso, mio giovane scrittore fantasma, ti concentri a chiudere quei cinque obiettivi, senza assolutamente dare attenzione agli altri.
Ho capito. Smazzo quei cinque.
E gli altri?
Nada. Niente. Niet.
Ottimo. Solo quando avrai esaurito le cinque priorità, potrai passare alle cinque successive.
Apro gli occhi. I clienti. Warren. Tim. Ganesh. Animali guida come piovesse.
Nessuna mail da Asana.
Con un puntino di superattack sistemo la zampa ferita del dio indiano super rosa e proboscidato: il business si rifonda. Apro Excel ed elenco i 25 task fondamentali, fatti i quali non sarò più nel Collo di Bottiglia.
Ne elenco 54.
Warren, figa [mil.].
Ne scelgo comunque cinque. Scrivo, lavoro, scrivo. Chiudo il Dipartimento dei Preventivi e dei Volevo Sapere Come Funziona Lavorare con Te. Dopo i primi due giorni, adatto il metodo di Warren: i cinque task sono prioritari su base giornaliera: ogni giorno ne eseguirò uno di grande taglia (4 ore ininterrotte), due medi (max 2 ore l’uno), due robette. Giorno dopo giorno, l’elenco principale dei task scende: in una sola ora tocca i 48, poi i 46, poi i 58.
Cinquantotto.
Stiamo camminando lungo una stretta traccia tagliata lungo il versante erboso che dà sulla Busa. I larici sono d’oro: non è una metafora, una melensaggine: sono d’oro davvero. La luce fende l’aria, rende i denti delle montagne ancora più netti. Racconto alla mia socia la visione di Warren. Mentre gliela snocciolo, i miei task warreniani superano la soglia dei 60. Meglio concentrarsi sul resto dell’escursione.
Il giorno dopo, in un eccesso di zelo gestionale e prioritizzante, decido di granulare le attività. Penso ai fiotti di dopamina ad ogni spunta messa: più spunte, più dopamina. Spezzo ogni task in task più piccoli, polverizzo ogni attività, le scindo in atomi primordiali. La sabbia delle attività finisce lungo il battiscopa, sotto ai mobili.
Se fossi Borges, scriverei che la scrittura di una sola parola diventa essa stessa un task.
Parte tre: la soluzione
E niente, la lezione è che ci sono dei momenti in cui devi lavorare, punto. La tua app per la gestione dei task è IL BADILE, e lavorare vuol dire proprio lavorare. Lavorare, smazzare, fare, aggredire, testa-bassare. Non ci sono piattaforme di gestione delle attività, prioritizzazione, tecniche di time management, santi né madonne: devi rimboccarti le proverbiali maniche, impugnare il proverbiale badile, infilarti la ancora più proverbiale molletta sul naso, e darci dentro di braccia.
Di braccia.
Mentre lo fa, avrai tutto intorno gli imprenditori e gli enterpreneur e i life coach (sai cosa ci va in questa parentesi) e i guru del mindset e gli startupper e Warren e Tim che come degli umarelli qualunque ti diranno ma devi organizzarti così, devi fare le priorità colà, guarda me che mi sveglio alle 4 e mi alleno poi medito poi scrivo perché sono grato alle cose poi guardo il cash flow poi leggo i quotidiani poi perché sono organizzato me la cavo con trentaquattro minuti di lavoro.
Ciao, guys, ciao. Io sbadilo, e ci vediamo di là quando ho finito.
Devi fare, fare, fare. In ordine sparso, con foga, a caso, come viene, purché una badilata dopo l’altra le cose del cumulo svolino via. Devi lasciarti guidare non dall’ottimo Warren, ma da quel detto che il mio relatore mi brandiva contro ogni volta, riuscendo prontamente a frustrarmi: l’ottimo è nemico del buono.
E vedrai che il Cumulo si abbasserà, libererai un passaggio attraverso di esso, la vita riprenderà a fluire. Uscirai dal Collo di Bottiglia e avrai imparato delle cose nel frattempo.
Niente mail da Asana, né da chiunque altro.
Beh, quasi.
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