È uno splendido fine pomeriggio autunnale e sto camminando nel parco. Nello specifico è il 16 ottobre, l’ultimo dei Destrage è appena uscito e io sono curiosissimo, così infilo gli auricolari, premo play, e tutto è chiaro entro il primo secondo scarso di A commercial break that lasts forever – primo secondo nel quale due strumenti, o meglio i due tizi che li suonano, salgono sul palco e si scambiano giusto una parola di intesa che nessuno nota, uno sguardo di sguincio alla setlist appiccicata sull’assito del palco, il plettro sfilato dalle corde oppure un’ancia sistemata nella sua sede, non era davvero da sistemare ma è più un gesto d’abitudine. Le loro voci sono sgraziate, beffarde e supercazzone, però poi il fatto è che questi due non ti lasciano il tempo di sghignazzare della situazione, e la cosa più bella e sorprendente del mondo è quando l’attitudine supercazzona mostra di sapersi stringere attorno alla sua arte in maniera talmente densa da non lasciarti scampo e travolgerti, e tu ti ritrovi all’imbocco di uno scivolo infinito e verticale e con le mani tenti di aggrapparti alle pareti ma queste non offrono appigli e quindi SI PARTE CAZZO: tempo di renderti conto dell’implacabilità della discesa, noti che durante la strofa il basso che chiude i primi due giri è il russare – gronk! – di una creatura enorme in letargo che dorme – snork! – nei recessi della sua tana da qualche parte nei recessi di una foresta primordiale umida di muschi; sul terzo giro è il computer di bordo tutto relé di una navicella spaziale che fa un infarto (con tanto di occhi a X e lingua di fuori) lasciando la suddetta navicella a derivare senza controllo informatico nello spazio siderale; e infine sempre questo basso è l’astronauta che si muove lento tra le gallerie di servizio rivestite di cavi e transistori in cerca del guasto, épperò sbatte con l’elmetto contro una trave che per qualche strano motivo è di legno polveroso e traforato dai tarli. Bonk.
Dopodiché il nostro protagonista cioè noi stiamo correndo corridoi lunghissimi dal pavimento scivoloso, una corsa rocambolesca a perdifiato durante la quale buttiamo l’occhio dentro le porte che sui corridoi si aprono, ma nessuna di queste sembra offrire una via di fuga certa e tocca correre almeno finché una di queste porte è meglio sceglierla, soltanto che dentro c’è un concerto metalcore e il relativo pubblico che poga, noi non vorremmo essere risucchiati dalla violenza ma la batteria è l’attrazione gravitazionale del pogo stesso, sono i flutti del mare che si infrangono con costanza contro gli scogli sul quale sorge il faro e che infine ci risucchiano nel pogo proprio nel momento in cui il breakdown si rettifica e si fa per questo più spietato: non possiamo fare altro che seguire con il collo lo schiantarsi degli accenti, cosa che però dura giusto un giro perché il maestro di batteria riporta tutto e tutti all’ordine e libera quel tempo che è l’incedere della Vita di Ogni Cosa che si accresce infinita – non sto a spiegare perché, o lo spiegherò in altra sede – con la differenza che la cassa è suonata con l’eleganza di babbucce di seta arabescata con la punta all’insù, sono passati soltanto 74 secondi da quando ho premuto play e il disco di secondi ne dura 2566 e quindi cosa succederà nelle prossime diciassettemila parole (abbondanti) che mi toccherà scrivere?
[queste cose sono state davvero provate dall’autore al primo ascolto di SO MUCH. Too much dei Destrage (2022). Una improvvisazione, circa, ma stando dall’altra parte della cassa, o giù dal palco, o qualcosa del genere. Il disco è bellissimo. Nella copertina di questo articolo, la copertina è ovviamente quella del disco stesso.]
Leave A Comment